Una volta, nel curriculum di una persona che conosco, ho letto l’espressione “One man band” e ci ho messo qualche momento per coglierne esattamente il significato. Qualche tempo dopo certe sfumature mi sarebbero state maggiormente chiare; sono poco portata per la vita sociale io, e non da tempi recenti. Anzi, con l’età sono forse leggermente migliorata.
Non sono misantropa, alla fine son sempre dei gemelli, segno che, secondo i pareri dei più, accompagna i grandi comunicatori, ma ho bisogno dei miei tempi, dei miei spazi, di alcune mie priorità. C0se che, a volte, non si adattano particolarmente a molte delle forme di chiacchiericcio fine a se stesso.
Eppure potrei vendere l’anima per qualche momento di raro senso di apparenza al mondo che mi circonda, alle persone che frequento convinta di farlo.
C’era un delirio in classe il primo giorno di scuola, gli inserimenti dei piccoli con gli inevitabili disagi di separazione da ciò che è più familiare. Pianti, urla, disordine generale e un vago senso di anarchia diffusa. Qualche ora dopo andava molto meglio: gli “inseriti” ormai tornati tra le braccia della mamma, i “vecchi” tranquillamente tornati alle loro vecchie abitudini di alunni navigati. Tipo quella di uscire dal cancello della scuola e, in ogni giornata in cui il meteo lo consenta, attraversare la strada e dirigersi a scheggia nel pacchetto di fronte: uno scivolo, due altalene e poco altro. Per loro il posto migliore del mondo per giocare, perché ci sono gli amici e quelli contano più di tutto il resto.
Ma anche per le mamme ci sono cose che contano, mentre le creature si rotolano nella sabbia (rigorosamente bagnata, altrimenti non è abbastanza divertente, eh!), si appendono alle corde dell’arrampicata, giocano a nascondino. E quelle tre parole leggere e sorridenti, appollaiata su una panchina, con i soliti volti noti, conosciuti mesi fa che sembrano una vita, e sempre ritrovati, fa pensare che, una volta ogni tanto, della “one woman band” si può fare a meno. Anche più di una volta ogni tanto, in verità.